domenica, febbraio 05, 2006

Ti alzi e passeggi

Ti alzi e passeggi attorno ad un tavolo che è diventato il tavolo, puoi arrivare al massimo in bagno. Avrò uno scrittoio bellissimo, pensi, e una finestra davanti alla quale metterlo, alta fino al soffitto, che parte da terra e che guarda a qualcosa di interessante e/o riposante. Non hai niente di tutto questo ti dici. Togli un accento o aggiungi una virgola. Cancello un sms alla volta, per primi quelli delle persone che non mi piacciono più. Penso che le lingue che hanno le declinazioni sono più potenti: fanno propri anche i termini stranieri, trasformandoli, rendendoli più familiari. Pensi questo mentre ci sono dei russi al tavolo vicino, uno dei tre urla perché ubriaco e/o arrabbiato o semplicemente è così che rende le sue parole convincenti, mi sembra che abbia bevuto molto wiskij (pensi che non sai come si scrive uiski, pensi che con i russi non si scherza.)
La cameriera ha le orecchie a sventola sottolineate dai capelli raccolti a coda. Mi da del lei. Ti da del lei. Il russo ubriaco e/o incazzato grida ancora, il brusio di fondo si fa silenzio. Ho sorriso alla cameriera mentre lei ha distolto lo sguardo. Vuoi dimagrire e tornare bello e guardare una ragazza con ritrovata sicurezza nel tuo fascino. Ti domandi su cosa quanto e come sei solito proiettare su una donna. Abbandonate la nave, pensi. Il russo urla ancora. L’insegna della pizzeria è un neon lampeggiante: rosa fucsia /verde smeraldo / rosa fucsia / verde smeraldo / rosa fucsia / verde smeraldo. Ti vedi come un chierico, in una locanda, medioevo, un pugnale nella cintura, un mulo nella stalla, una fascia di monete d’oro cucita nella parte interna del cappello. Un altro per favore, si con ghiaccio, grazie. Non sorride. Come la panoramica in una scena di un film che non ricordo bene trasformo l’intorno con un effetto speciale ruotando lo sguardo: me e il russo, e la cameriera, e due tavoli di metallo in un marciapiede e questa città italiana di metà prima decade nuovo millennio. Faccio di me un povero cristo che non ha significato nulla in un periodo dell’umanità storiograficamente definito buio. C’è fumo e/o nebbia, odore di legno marcio, di piscio e di vomito, tempi favolosi pensi, tempi di città buie. Un altro ancora, l’ultimo dico, quasi per scusarmi, forse arrossisco, stai bevendo troppo pensi, questa volta la cameriera mi sorride.
Pochi minuti e l’euforia ti si secca con le parole. E così quando non hai più niente da dire ti intrattieni sul fatto che non hai nente da dire: le enne scritte all’insù, le enne scritte all’ingù, un quadernone di geografia a quadretti con la copertina azzurro cenere con la foto di un branco di cetacei che si intravedono sotto il pelo dell’acqua. Alcune pinne, qualche coda. Ricordo di essermi sentito orgoglioso di me per l’attinenza della copertina al contenuto, ricordi di essere finito col credere di aver scelto consciamente di destinare proprio quel quaderno a proprio quella materia: geografia. Stavi per fare un trattino tra geo e grafia. Ricopiavo minuziosamente su carte da lucido i confini delle nazioni o dei continenti da un vecchio atlante senza più la copertina. Attaccavi quei fogli sulla carta. Passavo veramente ore a tracciare quelle linee con un’attenzione eccessiva. Geo-grafia pensi. Ho sempre investito gran parte del tempo che dedicavo al fare una cosa al farla bella, graziosa, o magari ben composta e ordinata. Era inevitabile che finissi col fare il grafico. Inevitabile. –grafico pensi, sorridi per averlo pensato. Certe cose le si potrebbero capire dall’inizio senza sprecare così tante energie per individuarle. Mi ricordo di quanta soddisfazione provavo ogni volta che pensavo a quanto sarebbe più bello il mondo se ognuno fosse ciò per cui è predisposto. E’ troppo forte la tentazione di mettere un trattino tra pre e disposto e penso anche che lo facevo fin dall’adolescenza e che così cadeva la teoria di un mondo più bello perché interveniva il libero arbitrio, l’entropia, la casualità che cozzava con l’essere disposto prima. L’a priori. Concetto risalente alla terza liceo credo, non prima. Scrivo un sms mentre l’alcool mi ha già messo le virgolette alla vista.
Riusciva a pensarsi ma non sapeva come dirlo… o magari era giusto non parlarne con nessuno: rimanere seduto a pensarsi! Pensi che questo sms è una cazzata, che non ha senso se non per te da questa parte del cellulare.
Ancora due bicchieri e raggiungerò il fondo mi dico. Ma di che ti chiedi. Non so più se mi piace quello che scrivo. Questo foglio a righe sta diventando una cazzo di soglia, penso, se levo ancora due bicchieri dovrai essere svelto a pagare ed uscire oppure rimarrai qui per ore, mentre sento il sudore nascondersi dietro le orecchie e formare una pozzetta sotto il lobo prima di scendere giu per il collo. Qualcuno apre una bibita in lattina. Mi ricordo quando la linguetta si strappava via. Mi pare che l’abbiano sostituita per il fatto che poi non si sapesse dove buttarle, le linguette. Tutte quelle linguette di alluminio finite chissà dove. Sorrido al pensiero di me che tengo l’anellino staccato dalla linguetta e me lo infilo al pollice.
Mi sono fatto convincere a prendere il dolce, devo essere proprio ubriaco

Mi sta venendo da piangere

Mi sta venendo da piangere e non c’è niente che possa fare per evitarlo. Alzo le palpebre più in alto che posso e tendo lo sguardo in basso, più in basso che posso, fisso le curve sfocate del mio naso: è cosi che tento sempre di ingurgitare le mie lacrime. Un brivido mi accarezza la tempia destra passando dall’alto in direzione della mandibola e poi giù di corsa verso lo sterno passando da dentro la gola rimbalzando impercettibilmente sul mento. Ma come si produce un’onda del genere in un corpo umano? Impariamo presto a nominare e riconoscere le diverse onde che ci attraversano. Quella di freddo, quella di amore, quella di panico, di stanchezza, orgasmo, sonnolenza, paura, sconcerto, ansia, gioia, …, !!
L’ultima volta che non riuscivo a respirare mi trovavo sotto una doccia molto calda con i vapori della schiuma bianco rosa pesca depositata sul piatto doccia che non riusciva a defluire. Non ho più acquistato un bagno doccia ai fiori di pesca da quella mattina. Per riuscire a respirare ancora mi sono cacciato due dita in gola ancora piene di schiuma per qualche secondo e ho vomitato un’unica lunghissima volta non appena le ho tolte fino a che i polmoni non hanno tirato uno strattone risucchiandosi anche della schiuma procurandomi un iper ventilazione e colpi di tosse secca per cinque o forse sei minuti di continuo. Ho strappato la tenda della doccia scardinando i fischer attaccati al soffito con degli anelli tipo portachiavi e mi ci sono raggomitolato dentro mentre l’acqua continuava ad uscire bollente dal bocchettone di venti centimetri di diametro da ottanta euro e io riprendevo coscienza e lucidità, a poco a poco.
C’è una lunghissima vigna rosa fucsia alle mie spalle, io non l’ho vista, perché ho paura mi dico, ma so che c’è ed è abitata da piccoli insetti scuri con la faccia di mio padre che mi guardano, muovono la bocca emettendo un unico suono cupo. Io cammino nella direzione opposta. Mio padre una volta mi ha preso a calci dopo che si era fatto male con un coltello con cui tentava di scannare un coniglio di non più di sei mesi che non ne voleva sapere di morire. Io gli tenevo le zampe posteriori con la mano destra e le orecchie con la sinistra mentre mio padre gli aveva infilato la punta del coltello nella gola tentando di strappargli la giugulare con un unico gesto secco. Si era tagliato un dito. Secondo me per ammazzare un coniglio quel gesto è fin troppo scenico e mio padre forse voleva solo dimostrarmi qualcosa, forse la sua autorevole fermezza nel proprio rapporto col mondo. Penso che fosse questo il motivo di tutta quell’ira dopo e dei calci e delle bestemmie mentre io tentavo di scappare con un coniglio che scalciava e sanguinava tra le mani.
Ho proprio voglia di farmi quella ragazza. E’ da un bel po’ che le fisso tutte le curve e in particolare i due buchi che le chiudono il tatuaggio tipo tribale da duecento euro minimo che le vedo spuntare dal perizoma rosa fucsia che spunta fuori dal jeans CK. Gli stivali neri a punta, lo smalto rosa mutande sulle unghia finte di marca, i capelli biondi con le meches fucsia, il corpetto rosso con il pizzo rosa, gli strappi sulle ginocchia, le tasche tutte slabbrate, la catenella argento, gli anelli manga, le orecchie piccole con due orecchini a forma di lampadina, il lucidalabbra secco ai lati della bocca. Le fisso a lungo il volto declinandolo a seconda delle smorfie che potrebbe assumere: orgasmo, stitichezza, febbre, calci …

La vita è bella tutto qui

La vita è bella? Tutto qui!
La vita è bella! Tutto qui?
Bere un bicchiere d’acqua quando non hai sete. Quanto durerà tutto questo? Vuoi piangere? Ascoltami! A cosa stai pensando? Ci sono ancora degli uccelli in questa città! Io sono qui tu dove sei? Mi brucia lo stomaco, ho le spalle rigide, i piedi stanno formicolando, non ne posso più! Cos’è che le fa più male? Vorrei arrivare ad uccidermi come se non stessi facendo niente di speciale. Arrivare a tagliarmi i polsi come se stessi rollando una canna da solo, quella della sera, quella che non sai mai come ti può prendere, quella che ti puo far fare dei bei sogni o non lasciarti dormire, ma che comunque fumi. Fuma ancora? Ieri non sono uscito perché non avevo voglia di fare la doccia ma ero sporco e a me non piace uscire di casa se sono sporco. Oggi non esco e basta. Nessuno puo dire con esattezza cosa ci sia la fuori. Sto in casa.
Sei in casa? Mi stai chiamando al telefono fisso! E cosa fai? Niente di niente di niente e non dirmi che non si puo fare niente perché comunque qualcosa la stai facendo anche se sei immobile su una poltrona a guardare fisso davanti a te con la luce spenta, non dirmelo. Scusa? Sono giorni che non riesco ad uscire. Ah ecco. Non ci riesco e basta. Non E’ che non voglio ma E’ che non ci riesco. Due giorni fa sono arrivato fino alla macchina. Ah davvero? Il tuo tono è sarcastico. Scusa. Ho aperto la portiera con il telecomandino della chiave. Silenzio di alcuni secondi (s.a.s). E poi? (s.a.s) Ma che fai piangi? No è il film. Ma parli con me o guardi il film? Nessuna delle due. (s.a.s) Vengo li. Perché? Ti faccio compagnia. Credo di aver lasciato la macchina aperta, perché al secondo lampeggio delle quattro frecce sono scappato. Un’ora fa era lì. (s.a.s) Passavo per caso, giuro. Io vado a fare la doccia e tu non venire qui!
Solo se finisco le sigarette allora ho la forza necessaria di camminare allo scoperto. Queste sensazioni devono averle provate chissà quante persone eppure a me sembra di essere IL solo con questo problema e ogni voolta che c’è questo problema mi sembra di essere il solo e che sia peggio dell’ultima volta anche se sei sicuro che chissà quanti ce l’hanno e cel’hanno avuto e chissà quanti hanno pensato che chissà quanti ce l’hanno e ce l’hanno avuto. Ma niente. Con la sua ragazza come và? Non ho un’erezione da settimane. Non me lo aveva detto. Lei non me lo aveva chiesto. Con che mezzo è venuto fin qui. Il TAXI, l’ho chiamato da casa aspettandolo dietro alla porta, appena è arrivato sono saltato dentro. (sas) A me non fa ridere. Scusi ma pensavo al tassista. Gli ho dato una bella mancia per il disturbo.
Stai meglio? Perché non mi hai chiamato prima? Ero al lavoro lo sai. Non li hanno messi da te i telefoni? Non essere sarcastico.

Henri

Il mio stato d'animo, avanzando sulla via del tempo, si arricchisce continuamente della propria durata: forma, per così dire, valanga con se medesimo. Se la nostra esistenza fosse costituita di stati separati, di cui un Io impassibile dovesse far la sintesi, non ci sarebbe per noi durata: poiché un Io che non muti non si svolge, come non si svolge uno stato psichico che resti identico a se stesso finchè non venga sostituito dallo stato successivo. Infatti, la nostra durata non è il susseguirsi di un istante ad un altro istante: in tal caso esisterebbe solo il presente, il passato non si perpetuerebbe nel presente e non ci sarebbe evoluzione né durata concreta. La durata è l'incessante progredire del passato che intacca l'avvenire e che, progredendo, si accresce. E poichè si accresce continuamente, il passato si conserva indefinitamente.
Henri Bergson, L'evoluzione creatrice.

Apro la birra

Apro la birra, lancio un mp3 dei wu-tang clan, do un ultima occhiata alla tipa della chat di sesso che tiene ancora una mano sulla coscia e una alla tastiera o al mouse non so perché è fuori campo. Faccio l’aggiornamento della pagina per vedere se non si è bloccato qualcosa o la connessione si è interrrotta. Magari è in privé penso. La sega me la faccio più tradi. Anche oggi è domenica. Non so più bene da quante settimane le passo a guardare questi video dal framerate così basso, forse neanche uno al secondo e spesso si bloccano, ma io riesco lostesso a masturbarmi quando le ragazze si alzano e spingono il culo con il perizoma verso la camera. Mi sento sempre molto al sicuro quando le cose le guardo invece che parteciparle. Vado bene? Continua. Non piangere però, No, non piango.
Mangio pistacchi e bevo birra. La scorsa domenica mi è capitato di spegnere una sigaretta nell’ultima birra ancora piena. Ho fatto di tutto per toglierla dalla lattina e nel farlo ne ho rovesciata metà. L’altra metà pensavo fosse ancora buona ma quando ne ho bevuto un sorso ho sentito che si era irrimediabilmente guastata. Ho sospirato pensando che potevo anche uscire e andare dal cinese due strade più in la. Ma poi ho pensato che no, non ne avevo proprio voglia e che poteva bastare così per oggi e anche se non era vero dovevo pur giustificare la mia pigrizia meglio se in senso salutista.
Sei un depresso latente. Grazie. Non volevo offenderti. Non mi hai offeso. Non è un’offessa. Ti dico che non mi sono offeso. Il tono diceva il contrario. Occhei tu sai sempre quello che traspare da quello che dico e da come lo dico così come da quello che faccio nonché da come lo faccio. Calmati. E no! Cazzo, No! Non urlare.

tu scrivi no?

Lo guardai come se mi vedessi attraverso i suoi occhi e riuscissi a cogliere l’istantanea del mio stupore che si fa stupore: uno specchio che guarda se stesso guardarsi. La musica era così alta da darmi la possibilità di prendere tempo: “Scusa?”. “Ti chiedevo se ancora scrivi!”.
La mia sensibilità era allo scoperto, impreparato alla domanda non ero in grado di ricoprirla, di metterla al riparo dalla eventualità di sottoporla suo malgrado e in pochi attimi ad una riflessione durata anni. Il rischio era di folgorarla con un’unica esposizione. Cinque parole in grado di trattenere per sé dal significato della frase una forza evocativa troppo grande per sprigionarla sul mezzanino di un bar bevendo long island a ritmo di elettronica anni ’80. Non riuscivo a trattenere l’unica parola che mi veniva in mente: “fuoriluogo!”. Cosa che valeva sia per me, corpopensiero in quel luogo, che per quella frase, richiestaccusa in quel momento. Mi concentrai sul bruciore di stomaco, spostandomi sul ricordo di un campro notturno prima e a quello di un prurito storico poi, compiendo un lungo piano sequenza dei mali del mio corpo, efficacissimo per distrarmi dai cattivi pensieri.. “No!”, dissi e praticamente urlai stupendo me per primo, mentre schioccavo le dita della mano sinistra tentando allo stesso tempo di afferrare il bicchiere. Uno in due? Gli chiesi gurdandolo da sopra il bordo del tamber. “Dai, offro io”, “No lascia” dissi mentre mi alzavo con ancora il bicchiere in mano facendo tintillare il ghiaccio mezzo sciolto. Mi girava un po la testa cosa che ovviamente tentavo di attribuire più allo shok che ai tre (quattro?) bicchieri di alcool ingeriti. Stavo richiamando alla mente tutti gli ultimi cocktail di fine serata e allo stesso tempo ne aggiungevo uno: un po triste questo pensai.

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