venerdì, febbraio 17, 2006

erboristeria

Entro in un’erboristeria, aspetto il mio turno leggendo maniacalmente le composizioni dei mille vasetti di latta impilati alla mia destra, mani dietro la schiena, arrotolo di continuo la lingua. “Ha mica qualcosa che mi aiuti a smettere ad avere bisogno di superalcolici la sera per dormire?” dico di botto con tono piuttosto sostenuto quando lo sguardo dietro il bancone mi fa un breve cenno con la testa. La signora inarca le ciglia imbarazzata, schiarisce la gola: anch’io mi sono accorto che quelli dietro di me facendo finta di niente hanno tutti drizzato le orecchie. Capelli biondi di parrucchiere, corti, tenuti fermi da un po di lacca, smalto di manicure, rosso chanel, di qualche giorno, camice bianco scollato che lascia studiatamente intravedere un seno che non molto tempo fa costringeva ad abbassare istintivamente lo sguardo a tutti. “Scusi?” Io sorrido, prendendo in giro me e la situazione, e quindi anche la signora. Quando dal seno risalgo agli occhi, lei sta già cercando conforto nel collega con lo sguardo, forse le sudano già le mani pensando a come liquidare un cliente fuori di testa il più cortesemente possibile. “Scusi?” Sono dinuovo sul suo seno io. Si rischiara la voce una seconda volta, sta per dire qualcosa. Credo bonario, forse a lei non sembra, data soprattutto la situazione, ma sfoggio il migliore sorriso che posso, che riesco a contrarre. “Sto smettendo di bere e un collega al gruppo mi ha consigliato di andare in erboristeria e di chiedere; che anche lui aveva fatto così all’inizio ma che non si ricordava come si chiamava la cosa che gli avevano dato”. Non la vedo ma sono sicuro che la pupilla della signora deve avere avuto una dilatazione improvvisa a giudicare dal rossore che le colora il collo a macchie. Io esco, aprendomi goffamente un varco tra le sensazioni di chi, aspettando, si chiedeva inconsapevolmente “cosa sta succedendo?”
Guardo negli occhi mia figlia: “cosa posso fare per te?” come se capisse le mie parole mentre morde la chiave blu del mazzo di plastica. Solo quella morde, chissa perché; forse il colore blu della plastica dopo un pò che mastichi rilascia una qualche sostanza. Chenesò. Magari quel colore a lei dice qualcosa. Ma perché fanno gli oggetti per loro di quei colori? Forse si crede che un bambino abbia problemi a distinguerli se non sono così saturi? E perché, mi chiedo, quando sei adulto ti si propone una tutt’altra tonalità? Entro in un’altra erboristeria. Il mio collega è certo che quella cosa lo abbia aiutato moltissimo nei primi periodi. Per me, la settimana prossima, fanno due anni di primi periodi, e se voglio che quella che ora morde le chiavi senta che quando riporta la pagella l’autorità sia tale, bhé, mi sono detto, per lei entro in tutti i sert e i sanatori e le erboristerie dell’universo. Così le avevo detto “di tutto l’universo piccola mia”. “Tutto diventa più complicato quando mi guardi negli occhi” avevo aggiunto. Prima o poi dovrò spiegarti della tua cicatrice, della mamma in cielo, del nostro amore e della mia malattia, come mi aveva consigliato di vedere l’alcolismo una mia vecchia amica psicanalista. La mia malattia. Una delle pochissime cose di cui riesco a riconoscerne il possesso, oltre a te piccola mia; e di te presto dovrò farne a meno. La mia malattia. Una volta di troppo, così diceva mia madre al funerale, una volta di troppo piccolo mio. Nella mia testa ci sono rimaste poche cose di quella sera, pochissime, quel tanto che basta da non lasciare spazio da un anno ad altri sogni che a quello.
Sono un soggetto sia geloso che apprensivo, forse da piccolo non lo ero, ma ora lo sono e parecchio. Forse da piccoli non si è niente e sono i grandi ad insegnarti cosa si può e cosa si deve essere. Un pensiero tutto per te piccola mia. Mi vedo già nel trasmetterti tutte le mie paure: “perché non mi hai chiamato, perché?”, “fammi vedere gli occhi, fammi sentire l’alito!” ma anche “non dev’essere facile avere un padre come me vero?” “lasciati abbracciare”. Mi sembra di non vedere l’ora che mia figlia abbia la mia età di ora e io quella di mio padre, penso mentre tu getti a terra le chiavi. Ti ho cresciuta libera, penso che vorrei pensare, libera di amarmi oppure no, di essermi fedele oppure no e di sentirti bene lostesso. Mentre penso tutto questo tu ti agiti, poi mi guardi, sposti lo sguardo dalle chiavi alla vetrina, cosa stai guardando? Cosa stai pensando? Ti chiedo.
Entro in un’altra erboristeria. Ci sono grandi sacchi stavolta, posati a terra, di tela, che ti accolgono col loro odore che riesci a dire solo “orientale”. Contengono ognuno una strana mistura a tinte marroni, più chiare o più scure, più rossicce o più verdognole. Venedo qui da casa mi sono preparato la domanda iniziale, pensando alle possibili risposte delle possibili domande. Sono ancora in strada e penso a mia moglie, al fatto che glielo devo proprio l’essere qui, fare questo sforzo, non fiondarmi in un bar, non pensare a certe sensazioni, a quello che chiamo la mia disperazione, altra cosa che riesco a sentire mi appartenga interamente. Gli spigoli degli oggetti vibrano emanando vapore come se li stessero bruciando, gli odori diventano rumore, non so quante volte deglutisco, tante, di continuo, passandomi la lingua sul labbro superiore e su quello inferiore alternativamente, lo stomaco senza gravità pare cosparso di piccoli aculei, pare che fluttui all’interno della cassa tracica come un pesce nell’acquario quando ci chiediamo se è morto se dorme o che cosa. Ho la mano sulla maniglia dell’erboristeria, deglutisco, chiudo gli occhi, mi gira la testa, vorrei piangere ma non ci riesco, mi volto verso il sole che in questa città non è mai stato così accecante di oggi. Riesco a fissarlo per qualche secondo. Chiudo gli occhi, li riapro, li richiudo, non vedo più niente. “Mi scusi” Dietro di me la voce di una donna vorrebbe entrare nell’erboristeria, ho ancora la mano destra saldata alla maiglia. Non è che non la sentissi o non volessi farla entrare ma il fatto è che in quell’assurdo momento io stavo arrivando ad un equilibrio, assurdo, assurdo, ma sentivo che lo stavo per provare, stavo per provare una salvifica sensazione di pace in quella posizione, come quando senti che un orgasmo da molto lontano arriverà in fretta. La voce di quella donna si stava agitando, forse mi aveva preso la mano, forse stava tendando di aprirmi le dita per staccarmi le mani dalla maniglia. Qualcun altro da dentro forse spingeva perché io mollassi la presa, qualcun’altro deve aver urlato.
All’ospedale dettero un nome a tutto quello, chiamarono la mia amica psicanalista, l’unica persona su cui potevo contare in quei momenti. Tieni le chiavi di casa, la babysitter starà impazzendo non vedendomi tornare o forse quella pazza se n’è andata lasciando Giulia da sola a casa, ne sarebbe capace secondo me.

This page is powered by Blogger. Isn't yours?